Giores

Giorgio Restelli, in arte Giores, è un fotografo che colpisce per l’intensità e l’astrazione metafisica che pervade ogni suo scatto, poiché pur partendo dal reale riesce a condurre in un subconscio universale. Giores, infatti, è anima mundi: ogni pagina è un viaggio.

Dettagli catturati in giro per i cinque continenti prendono vita nel macro formato, esaltato dai colori accesi e unici di una tavolozza personale, che del fuori gamma fa una filosofia cromatica inedita.

Il particolare di una porta a Cuba, le cime abbandonate su un pontile di Bali, un muro scrostato a Dallas. Sono solo alcuni dei soggetti della sua ricerca, che va al di là dell’oggetto in sé, sprigionando un’energia e una vitalità che il fotografo assicura esser nascosta in ogni venatura, crepa o stilla di materia incontrata sul suo cammino.

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Giorgio Restelli nasce a Varese nel 1956. Consegue la maturità scientifica e, durante gli anni di Università al Politecnico di Milano, intraprende la carriera militare, dalla quale si congeda con il grado di Capitano. Dopo un’esperienza di diversi anni maturata nel settore commerciale e della comunicazione, dal 2000 è Direttore delle risorse artistiche di una media company nazionale.
La fotografia nasce nel viaggio, in uno spostarsi irrequieto via da casa, mosso da una curiosità bruciante, da una fame di conoscenza del mondo: di una dimensione particolare del mondo che le culture, le latitudini e le stratificazioni della storia imprimono profondamente nella geografia, nella superficie visibile dei luoghi.
Ha iniziato a fotografare sotto questo segno, anche solo banalmente per dare conforto alla memoria, ricercando immagini che come un profumo lo riportassero a un ricordo, uno stato d’animo, a come arrivava, come ripartiva… Eppure non ha mai fotografato un paesaggio, non ha scatti di un orizzonte, una spiaggia o una piazza, la fuga dei palazzi nelle città che ha visitato
Un panorama non ha mai restituito il sapore che il posto gli regalava.
Cerca invece il poco, il pochissimo che abbia la forza e la concentrazione di colore sufficiente a evocare il tutto di un luogo, e vede nascere da un singolo scatto immagini ben più ampie e infinite visioni.
Fotografa il colore della materia di accessi rovinati, su cui il tempo ha depositato una patina d’uso, di passaggi e di storie; cerca il colore dove non ce n’è più, un’evocazione del colore nel trascorrere del tempo.
Così nascono anche le immagini recenti di parole interrotte: pezzi di scritte e insegne pubblicitarie ritratte nella saturazione del neon in primissimo piano, colte come i dettagli sparsi di uno scenario, i frammenti ai margini di una cartografia immaginaria.
Le Broken words si concentrano sulla lettera in sé, sul segno grafico come elemento di comunicazione non più di un significato concluso, ma ancora comunicativo, per evocazione, di uno spazio implicito: le forme e i colori, l’inizio o il finale di una parola conosciuta, suggerita o anche inventata come in un gioco dell’infanzia.
Risale lungo le tracce di questa ricerca come muovendosi su sentieri di confine, seguendone le deviazioni, lontano dalle mappe e tentando altri luoghi e una geografia femminile di nuovo interrotta.

Non sono ritratti a figura intera a comporre le immagini di Stolen legs, ma ancora una volta dettagli, diventati sfondi in bianco e nero che offrivano il margine per essere reinterpretati e motivavano una conclusione ulteriore.
Come sopra le geometrie di un fondale marino, ha aggiunto a quei dettagli elementi di colore in una pittura istintiva: un dripping che ha quasi la funzione delle linee altimetriche, che disegna una mappa climatica, descrive una temperatura, la trasposizione nel colore di uno stato emozionale generato  dall’immagine di un territorio forse, in fondo, inesplorabile.